IL MERCATO NON SALVERÀ LA TERRA
di Giovanni Sartori
Qual è il rapporto tra democrazia e sviluppo economico? Nel secondo dopoguerra ha trionfato la dottrina economicistica che sostiene che per trasformare i regimi autocratici in democrazie occorre una crescita di benessere, e che il benessere porta automaticamente con sé la democrazia. Insomma, la democrazia dipende dai soldi e nasce con i soldi. È proprio così? Direi di no.
Cominciamo con il rapporto tra democrazia e mercato. È ormai assodato che una democrazia senza sistema di mercato è poco vitale. Ma non è vero il contrario. Un’economia di mercato può esistere e fiorire senza democrazia, o precedendo la democrazia: vedi singapore, taiwan, corea del sud, cina. Altro quesito: se la democrazia produca benessere. Sì, ma anche no. L’america latina è stata impoverita anche dalla democrazia, perché la democrazia induce o può indurre a consumare più di quello che si produce o si guadagna. E le «democrazie in deficit» sono state e continuano a essere frequenti.
Guardiamo allora all’aspetto nuovo del problema, al rapporto tra democrazia e sviluppo. Finora si è argomentato, per un verso, che il benessere promuove la democrazia e, dall’altro, che il denaro la corrompe e la compra. Ma finora il rapporto tra stato e mercato vedeva uno stato che variamente regolava e interferiva nel mercato. Ma recentemente, con la globalizzazione, si è creato lo «sviluppismo», una dinamica, un vortice che nessuno (neanche gli stati) riesce a disciplinare né a frenare, uno svilupparsi a ogni costo, il più presto possibile, alla maggiore velocità possibile. È bene che sia così?
Sarebbe un bene se vivessimo in un pianeta sottopopolato e, diciamo, dieci volte più grande del nostro con risorse praticamente integre. Il guaio è che il nostro è un pianetino disperatamente sovrappopolato, nel quale la crescita non può essere illimitata, e che da qualche decennio è entrato nel vortice di uno «sviluppo non sostenibile», tale perché consuma più risorse di quante ne produca, e che attinge a risorse in via di esaurimento. Ma di questo sviluppo non sostenibile il grosso degli economisti non si vuole nemmeno accorgere. Il loro mantra è che a tutti i problemi dello sviluppo infinito e della crescita a gogò provvederà il mercato, quando sarà tempo di provvedere. Ma no, proprio no.
Dicevo dello sviluppo non sostenibile, e che questo problema non è affrontato e tanto meno risolto dai meccanismi di mercato. Intanto, mercato e sistema economico non coincidono. Il mercato non contabilizza tantissime cose, per esempio i «beni collettivi», quei beni che nessuno paga e che sono pagati, di regola, dalle tasse. Gli esempi classici sono la polizia, la sicurezza, le strade. Se chiedo l’intervento della polizia, non è che poi ricevo il conto da pagare. Né pago per l’illuminazione stradale. Ma ci sono casi più complicati. Prendiamo gli alberi, una foresta. Sono beni collettivi? Nella misura in cui forniscono il servizio di pulire l’aria, di fornire legno e di proteggere la fertilità del suolo, direi di sì.
Ma non per il mercato. Chi abbatte alberi mette in conto soltanto il costo del loro abbattimento. Il costo della distruzione di una foresta va in cavalleria. Lo stesso vale per l’acqua. Quella di superficie che è canalizzata viene di solito fatta pagare, ma l’acqua freatica, l’acqua di falda, no; chi la estrae paga soltanto il costo dell’estrazione. Va bene finché il consumo dell’acqua di falda viene pareggiato dalla sua sostituzione naturale. Ma altrimenti il consumo in eccesso produce un danno collettivo che non viene pagato né contabilizzato.
Poi ci sono le cosiddette externalities, gli «effetti esterni». Chi inquina l’acqua o avvelena l’aria con «gas serra» produce danni che il danneggiante non paga e che il mercato non registra. Eppure si tratta di danni colossali, con costi di ripristino e di riparazione — che sicuramente si renderanno necessari — altrettanto colossali. Il succo del discorso è che gli economisti si sono chiusi nel recinto del mercato, e che non avvertono che la crescita e la prosperità economica sono ormai crescite in deficit, pagate, in proporzioni sempre crescenti, da un collasso ecologico su scala planetaria.
Un ulteriore limite del mercato è che è lento, che è miope. Non anticipa i tempi, ma al contrario prevede e calcola solo a brevissimo raggio. Quando si dice markets do not clear, si sottintende che i mercati non sbrogliano i problemi in tempo, che affrontano i nuovi problemi quando è troppo tardi. Tra pochi decenni il petrolio diventerà insufficiente.
Che cosa dice l’economista? Dice: va bene, quando il petrolio diventerà scarso, il prezzo salirà e renderà competitivi prodotti sostitutivi, per esempio metanolo e biodiesel ricavati da piante zuccherine. Tante grazie! Dal momento in cui il petrolio arriverà, mettiamo, a 150-200 dollari al barile a quando lo potremo sostituire con i biocombustibili passerano 4-5 anni. Dovremo far crescere le piante, costruire le fabbriche, organizzare una rete di distribuzione, adattare le automobili.
Che cosa faremo nel frattempo? Nell’affidarsi ai «miracoli» del mercato gli economisti ignorano anche che i biocombustibili non basteranno, anche perché le coltivazioni, diciamo, «petrolifere» si sviluppano a danno dell’agricoltura che produce grano e che ci sfama. Non c’è abbastanza territorio per produrre contemporaneamente piante per la benzina e prodotti alimentari. Siamo saturi, eppure gli economisti non se ne accorgono.
Un altro esempio. Non mi sono ancora imbattuto in un economista che affronti davvero il problema della scarsità già grave e sicuramente crescente dell’acqua. Secondo le regole di mercato, per rimediare occorre che l’acqua venga a costare quanto la desalinizzazione del mare. Ma l’agricoltura non potrà mai affrontare questo enorme costo di estrazione e anche di distribuzione. Senza contare che ci manca l’energia (altro problema!) Per mettere in moto questo processo.
E così la vita stessa di un miliardo e anche più di persone si troverà, in tempi abbastanza brevi, in pericolo. È uno scenario terrificante.
Il punto è che il mercato arriva tardi e male per fronteggiare i drammatici cambiamenti in corso, mentre dall’altro lato li accelera e li aggrava, innescando sempre più uno «sviluppismo cieco» destinato all’implosione. La terra è già popolata da sei miliardi e mezzo di persone, e il loro numero è ancora in crescita.
Per gli economisti e per i demografi la sovrappopolazione è un problema extraeconomico, che non li riguarda. Addirittura molti di loro sostengono che bisogna essere prolifici perché occorre una forza lavoro crescente, altrimenti l’economia ristagna o diventa difficile pagare le pensioni. Ma questo è un vortice senza fine. Lo sarà ancora di più quando saremo 9-10 miliardi. Nel frattempo una crescita demografica fuori controllo ci sta inesorabilmente portando al disastro climatico e al collasso idrico. Senza che quasi nessuno (inclusi gli economisti) se ne avveda.
Il paradosso è che il sistema economico di mercato ha per circa duecento anni promosso la liberaldemocrazia, mentre ora la minaccia con un’accelerazione fuori controllo, la cui implosione può travolgere anche la democrazia che aveva allevato. Un cataclisma climatico e ambientale può affossare, assieme a tutto il resto, anche la città libera. Perché lo sviluppo non sostenibile è anche uno sviluppo inaccettabile, che impone un ritorno a quel passato di carestie e di povertà che ci eravamo lasciati alle spalle.